Museo di Triora 5 Il territorio

Il territorio

Dove la Natura è intatta da 10.000 anni

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Addentrarci nei boschi

Il territorio comunale di Triora è di quasi 70 kmq. Quindi 10.000 campi di calcio o di rugby. Così tanti se il territorio fosse piano. In realtà non lo è per nulla e quindi sono molti e molti di più. In pendenza. Più di un quarto di questo spazio è ora occupato da boschi. Non è sempre stato così, perché il bosco oggi avanza dato che si sono abbandonate le coltivazioni montane.

Cinquecento anni fa gli Statuti di Triora parlavano di boschi non estesi. Infatti nei secoli precedenti molta legna era stata tagliata per le costruzioni navali nei centri costieri ed oltre, ovviamente Genova e forse Pisa. L’Uomo, qui, interviene. Cambia il bosco e ci lavora.

I larici del prezioso bosco di Gerbonte (foresta demaniale, dunque di Stato, dal 1890) sono stati introdotti, non sono cosa ligure originaria. Lo spazio del bosco era generalmente di proprietà pubblica e veniva regolarmente affittato per il prelievo di legna.

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La popolazione locale, di Triora e dei centri attorno a Triora, poteva raccogliere lo strato di foglie sul terreno, utile nelle stalle o la legna caduta e secca necessaria al fuoco di casa, che ardeva tutti i giorni e tutto il giorno. In cucina, per scaldarsi e cucinare.

I boschi sono sempre stati considerati diversi in base ai loro alberi e quindi al loro valore. In primo luogo si parla di boschi di alto fusto, con larici e faggi. Poi si parla di boschi cedui, con faggi, roveri, carpini e qualche castagno. Gli alberi sono spogli d’inverno. Infine c’è il bosco misto, con roverelle.

Nei boschi di minor valore ci sono i noccioli selvatici, utili per la fibra vegetale con cui fare canestri e per le foglie destinate al foraggio invernale degli animali. Le ghiande delle querce alimentano i maiali, ben presenti. Il bosco era vivo e dovrebbe esserlo, con tante persone che vivono all’interno, soprattutto d’estate. Ci lavorano.

I mestieri del bosco dipendono dagli alberi: quelli di alto fusto servono per le costruzioni navali, civili e per la falegnameria. Si tagliano da maggio in avanti. Gli altri alberi si utilizzano per produrre carbone, carbone di legna negli spazi dei carbonai. Si alimentano calcinare per cuocere le pietre calcaree e si ottiene la calce. Si producono attrezzi per la casa e la campagna.

Nei boschi circolavano i vigilanti comunali, i campari, come oggi si incontrano i Carabinieri Forestali. Asce di ogni dimensione e, infine, grandi seghe spinte a forza di braccia, prima delle motoseghe: sono gli attrezzi simbolici del bosco, con i tagli organizzati da 150 anni ad oggi.

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Seminare un campo

Se hai uno spazio, utilizzalo. In Liguria e a Triora si deve fare sempre così. Anche se lo spazio non c’è, si crea, con il terrazzamento. Il terreno è sostenuto da migliaia di metri cubi di muri costruiti con sola pietra e terra. Qui lo sanno fare da secoli. Un sapere mediterraneo, patrimonio immateriale dell’Umanità per l’UNESCO.

In questa regione avete visto il mare, la spiaggia, ma nel passato questa regione vuol dire gente che abita in posti come questi, a Triora. E coltiva, in luoghi elevati, vincendo la pendenza. Si attua un’azione umana primaria: seminare. Si creano così i cosiddetti “seminativi”: semplici oppure con alberi (“arborati”) o con la presenza di acqua (“irrigui”). Il mondo del seminativo è il mondo principale di Triora per secoli e secoli. Lo stesso nome di Triora può derivare dal triticum: il grano.

Triora ha il suo museo con tutto quello che serve nei seminativi, ma è anche un museo naturale del seminativo. Ci sono coltivazioni vicino agli abitati, anche delle attuali frazioni: nel Villaro, e a Cetta, Creppo, Goina e ancora più in alto nella zona di Gerbonte e persino sopra Verdeggia, sui 1000 m di quota, in aree per secoli al centro di contese con i vicini abitanti di Briga.

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Per molto tempo si produce frumento tenero, più che duro (il primo va bene per fare il pane o pasta fresca, il secondo per fare la pasta secca). E poi cereali cosiddetti “minori”, ma molto importanti per l’alimentazione locale: segale, spelta, miglio e anche l’orzo. In più crescono legumi: fave e fagioli. E ortaggi come le rape.

Una singolarità citata da leggi locali (Statuti), cinquecento anni fa, è lo zafferano. Di fatto è una spezia, di origine mediorientale, qui coltivata per un commercio che poteva dare importante ricchezza. Ancora oggi è costosissimo: vale quanto l’oro. Del resto, di ogni pianta si raccolgono i fiori. Si capisce che i terreni non devono essere sempre seminati allo stesso modo.

Si alternano le semine e 120 anni fa si è arrivati a seminare, in quattro anni, prima frumento, poi frumento per il secondo anno (si dice “ristoppio”), indi orzo e poi le patate. Le patate sono un prodotto di origine americana, non molto apprezzate in Europa per molto tempo, ma in posti come Triora, duecento anni fa, sono diventate molto popolari e hanno sostituito, ad esempio, le rape.

Il terreno richiede molto molto molto lavoro. Grazie alle osservazioni agricole del primo Novecento sappiamo che un terreno seminato con 25 kg di frumento doveva essere prima interamente zappato in 55 giorni. Il terreno veniva lavorato fino a 35 cm di profondità. (più ampio del righello più lungo che avete portato a scuola).

Quando nascevano le prime piantine le donne lavoravano per un mese con la zappa e per 15 giorni a mano, per togliere tutte le erbacce. Per la raccolta (mietitura) ci volevano 12 giornate di lavoro. Le spighe venivano raccolte in covoni ad asciugare al sole. Il chicco di grano veniva poi separato da tutto il resto con la battitura nelle aie dei paesi, su di una superficie resa più liscia possibile. Si utilizzavano dei bastoni legati a strisce di cuoio (corregge).

I terreni potevano anche essere arati da buoi che, appunto, trainavano un aratro, ma non era così comune disporre di un’attrezzatura completa. Con l’arrivo delle patate, si passa anche alla concimazione dei terreni con letame ogni quattro anni. Anche ad alta quota si utilizza il letame degli animali che hanno passato l’estate all’alpeggio. La concimazione è utile per agevolare la crescita delle patate, che richiedono minor cura nel diserbo.

Nei seminativi detti arborati si trovano viti, spesso ai margini dei terrazzamenti, per non sprecare neanche un centimetro di terreno. Dove c’è acqua crescono meglio i fagioli, soprattutto dopo l’arrivo di tutte le nuove qualità dall’America. Le osservazioni di circa 100 anni fa indicano una produzione di 88 chili di legumi su di un terreno di 740 mq. Insomma, un quintale di fagioli se si dispone di un terreno grande più o meno come otto medi appartamenti moderni.

Abitare vicino ai seminativi quando si coltiva è necessario, a causa dei tanti giorni di lavoro. Se sono lontani dalla casa abituale si va nelle località campestri. La cosa è più o meno la stessa, il clima estivo, ma fresco. La fatica, sempre tanta.

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La vita nei prati

Se oggi vediamo un bel prato, con l’erba tagliata, vicino al bosco, magari esposto al sole, pensiamo subito di farci un pic-nic, una grigliata e di usarlo come un campo da gioco. Noi. Per secoli non è stato così.

Quell’erba è stata molto più preziosa. L’erba doveva essere tagliata tutti gli anni perché, opportunamente seccata, era conservata come foraggio per l’inverno. A Triora infatti stazionavamo mandrie di bovini, in cui investivano soldi le famiglie più ricche.

Sempre a Triora erano di passaggio anche greggi di ovini. A migliaia. Tutti avevano bisogno di mangiare, quando non c’era più erba estiva nei pascoli. Quella tagliata nei prati è di qualità diverse, a seconda delle specie di piante presenti.

La qualità dell’erba è diversa anche in relazione all’altitudine del prato. Vi sono prati “comodi”, vicino agli abitati e altri molto distanti, in località elevate, la cui qualità è leggendari a livello almeno locale (Arpiglia, Ravin). I prati erano generalmente a gestione comunale oltre che di enti religiosi e più avanti di privati, ceduti in affitto.

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Lo sfalcio veniva eseguito durante il mese di agosto. Ad esempio, un ettaro e mezzo di prato, in pratica due campi di calcio, si falciavano molto bene, in otto giornate di lavoro. Questo se i falciatori erano pochi. Più erba, più falciatori. Con pochi attrezzi per secoli efficaci che potrete conoscere all’interno del museo. Basti pensare che ogni lavoratore si portava dietro almeno tre o quattro lame, per cambiarle ogni volta che una di loro tagliava meno.

Il fieno prodotto veniva trasportato in siti coperti e sicuri. Era il periodo di grande traffico di muli, andata e ritorno più volte al giorno, anche se in tempi più recenti erano state installate le teleferiche. I prati erano poi osservati, curati tutto l’anno, quando era necessario estirpare arbusti che avrebbero altrimenti preso il posto dell’erba.

Durante il periodo di lavoro presso i prati più isolati era necessario stabilirsi con tutta la famiglia in casoni in muratura, vivendo in assoluto contatto con la Natura. Era la vita del prato. Di notte, poca luce, le stelle e i sogni osservando lontani i lumi di Triora o di paesi ancora più lontani se non addirittura degli insediamenti lungo la costa.

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Pascolare, da mille e mille anni

Il racconto di Triora e del suo territorio comprende persone che possono apparire dei senza casa. I pastori. L’allevamento a Triora è sempre stato molto importante. Chi aveva soldi, investiva comprando bovini. Tutti avevano almeno una capra: voleva dire latte fresco, burro e un po’ di formaggio. Triora è sul percorso di due tappe fondamentali della vita annuale del pastore di pecore, perché è un passaggio obbligato scendendo o salendo al pascolo estivo.

Attorno a Triora, 800/1000 metri di altezza, tappa intermedia. D’estate gli animali stanno nelle terre alte ancora più alte. Sono “L’Alpe”. Luoghi controllati e gestiti dalla Comunità, dati in affitto. Si praticava il “debbio”, dando fuoco alle aree per bruciare gli arbusti fastidiosi e credendo di migliorare la resa del terreno.

Nei secoli, anzi, per più di 2000 anni, spicca il numero di pecore. Si arriva ad oltre 50.000, circa 100 anni fa. Il territorio di Triora è come uno stadio pieno di pecore, tutto esaurito per una grande partita. Rumoroso, di belati, campanacci, cani da pastore. Gli arbitri sono proprio i pastori, spesso riuniti in gruppi operativi. Sono tutti o quasi di origine brigasca. Non sono di Triora, ma di quell’area che confina con Triora in direzione dell’attuale Francia.

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Oggi il Comune di Triora, con il territorio di Realdo, comprende una parte di quello che un tempo era l’ambito di Briga, al di qua e al di là delle cime alpine. Si è definito ancora una volta un sistema di confine di montagna, che è diverso dalla nostra visione attuale.

Da 800 anni e fino al secolo scorso, in alpeggio, è sopravvissuta una idea di utilizzo comune degli spazi, dati per alcuni anni a Briga e per altri a Triora, per esempio. Certo, si arrivava a litigare, anche perché nel tempo sono apparsi interessi di privati o influenze politiche di Stato (Genova, Savoia). Alla fine ha messo tutti d’accordo una figura di altissimo rilievo, l’abate di Servient, nipote del potentissimo re di Francia, Luigi XVI…il “Re Sole”…proprio lui. Si è nel 1670 e ancora i documenti di cent’anni fa fanno riferimento a quel provvedimento. In fondo era come dare la palla in mano un po’ a Briga e un po’ a Triora.

Intanto i pastori fanno il formaggio e tosano le pecore vicino a Triora prima di salire in altura. La lana era lavorata nelle aziende locali. Si sale ai pascoli alti in data 11 giugno, giorno di San Barnaba, uno dei santi “liguri” importanti. Si scende il primo settembre. Tutto in un giorno.

Il museo raccoglie gli oggetti della vita del pastore, della gestione di bovini, ovini e caprini. Fosse anche il dover portare ad un pascolo vicino le capre del paese. Si fa a turno, lo fanno i ragazzi di ciascun quartiere, stando attenti che i voraci animali non facciano danni. Mangiano di tutto. E poi alla sera ogni capra appena è in paese ritrova da sola la sua stalla.

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Il castagneto: la risorsa per tutti

Alcuni oggetti del percorso musale di Triora possono essere collegati al fantastico mondo del castagno. Il castagneto è una delle risorse principali della città. Un tempo. Le indagini economiche relative ai boschi, realizzate poco più di cento anni fa, raccontano sempre di castagni definiti “antichi”. Li troviamo ancora sul territorio: tronchi colossali, rami infiniti.

Questi alberi erano, sarebbero, sono molto produttivi. Venti piante adulte danno 180 kg di castagne. Non tutte le castagne sono uguali

La gente del posto li conosce: i marroni di Triora, ad esempio…

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Gli alberi erano curati, potati, ripuliti. Il terreno sottostante era tenuto sgombro: in primavera vi si portavano le mucche al pascolo. Con efficaci zappe si eliminavano eventuali arbusti. La raccolta era spesso affidata alle donne: in un giorno una persona sola raccoglieva circa 50 kg di castagne. Basti pensare alle osservazioni che Enrichetta Borelli fece mentre la torturavano nel 1587, in quanto creduta una strega. Il vento fischiava e lei sapeva che non era cosa buona per le castagne.

Successivamente parlava di questo frutto con vero desiderio. Del piacere di raccoglierle. Aveva una profonda cultura in materia. Le castagne venivano poi fatte essiccare in edifici appositamente costruiti. Brace sempre accesa nel piano terreno e castagne sul ripiano superiore, forato. Quindi era necessario stare sul posto per… un mese ad ogni carico di castagne. Quindi si dovevano eliminare le bucce e stivare le castagne in casa, pronte per essere mangiate. Tutti i giorni. Con il latte di capra, caldo, ad esempio.

Altre castagne erano invece macinate nei molini della zona: farina di castagne, dunque, oggi molto pregiata. Sarà il caso di andare a cercare anche gli antichi luoghi per seccare le castagne, oltre che raccogliere le castagne, tanto, dopo tre passaggi dei proprietari, chiunque poteva prenderle. E non si buttavano via neanche le foglie secche, destinate alle stalle. Meraviglioso castagno.

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La vite: una piacevole necessità

Indagare nel passato di Triora e scoprire che la vigna era molto curata e diffusa. Anche in questo caso il tempo sembra essersi fermato, non solo nel nostro museo.

Il territorio di Triora è mediamente molto elevato e sembra poco adatto alla coltivazione della vite. Si tratta però di una delle prime attività agricole conosciute dalle genti liguri, assieme a quella della coltivazione dei cereali. Era molto meglio bere del vino, giovane, leggero, piuttosto che acqua non sempre facile da avere disponibile e pulita.

La cantina è sotto casa, l’acqua non arriva in casa. Nel passato, è ovvio. Anche con un clima più freddo di quello attuale, la vigna non mancava. I documenti, anche quelli più antichi, parlano chiaro: nel 1531 l’intera podesteria di Triora, che comprendeva anche centri rilevanti come Molini e l’attuale Castelvittorio, aveva una produzione di vino pari al fabbisogno locale.

La vigna è stata rinnovata anche dopo la disastrosa infezione da fillossera, 140 anni fa circa. Ripiantato tutto, si lavora: una vigna con mille vite produceva 5 quintali di uva. Si cercava la quantità, si zappava la vigna a mano in un mese e si facevano otto trattamenti a stagione, mediamente, con rame e zolfo.

Il simbolo più “recente” di questo lavoro è la pompa a spalla: peso e fatica. Ah, tra un filare e l’altro si coltivava qualcosa, magari le fave. Non si sprecava terreno. Il vitigno (la specie di vite) preferita era ed è ancora, per il territorio del vicino comune di Molini, l’Ormeasco: il dolcetto, ma di tipo ligure, guarda, sente il mare vicino.

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Un mondo bianco, un mondo di latte

Oggi, ancora, a Triora, si possono degustare, e comprare, ottimi formaggi. Se ci sono i pascoli, primaverili ed estivi, c’è il latte. Mucche, pecore, capre. Questo vuol dire latte fresco da mangiare, produzione tradizionale di burro e, ancora oggi, di formaggio.

La Regione Liguria (Triora si trova in Liguria), definisce con attenzione i prodotti tipici regionali. Ne compaiono molti legati a Triora, proprio perché legati alla produzione tradizionale di latte. Si tratta perlopiù di produzioni di “malga”, primaverili ed estive, quando mandrie e greggi salgono ai pascoli montani. Formaggi e formaggette di latte ovino, caprino e di vacca. Per tutti, fragranza e freschezza, sentore di erba e fiori di montagna.

Fra tutti emerge il saporito brussu, una ricotta fermentata di latte di pecora. Poi, la sora e la toma, legati ancora alla produzione di latte delle pecore brigasche. Ci sono secoli e secoli di scambi culturali in questi nomi: si parla di formaggi che sono nati in un mondo che è ligure e piemontese al tempo stesso. In più, alpino, in quell’unicità della pecora appunto “brigasca”.

Oggi una parte dell’ex comune italiano di Briga è all’interno del territorio di Triora. Lo spazio alpino è sempre più senza confini reali, però. Oggi non ci sono più migliaia di capi ovini, come era ancora nel corso del Novecento. Oggi non ci sono più le capre in ogni stalla del paese, cosa che voleva dire latte fresco ogni giorno e pascolo delle bestie nei pressi degli abitati sotto il controllo di ragazzi del paese, mai gli stessi, perché vivere liberi in campagna è cosa bella. Questo ci insegna Triora. E assaggiate i formaggi…

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Abitare un mondo selvatico

Creppo, Bregalla, Loreto, Cetta, Goina, Verdeggia… Borgosozzo, Foresto, Pian del Vescovo, Masseria, Cianfregheo, Barche, Cà Bruciata, Fasciarengo, Pian Pagliai, Bottesina, Gerbonte… le attuali frazioni comunali di Triora, con case e cappella o semplici località con poche abitazioni.

A queste si aggiungono quelle brigasche collocate entro il comune di Triora nel 1947: Realdo, Borniga, Pin, Abenin, Craviti… Insomma, sono decine. Nascono in tempi anche recenti, anche se come recente si intende due o trecento anni fa. Abitate in continuità o oppure in occasione di lavori agricoli, spesso legati ai campi seminati in montagna o ai prati da falciare.

Le case cercano l’esposizione al sole, c’è un po’ di spazio, anche se il territorio è sempre in pendenza. Non si ammassano le une sulle altre, pur se qualche insediamento è più arroccato di altri. La casa è semplice: stalla per animali, l’immancabile capra, un po’ di fieno, la cantina. Un piano con la cucina, il cuore caldo. Le stanze vicine o ancora un piano per i letti o seccare derrate alimentari.

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Pensate ad un mondo che è stato buio, senza elettricità, dipendente dalla legna e dalla sorgente più vicina. Il giorno e la notte non sono silenziosi. Vivono dei rumori della Natura. Il vento, i versi dei volatili. Nei dintorni, le volpi che abbaiano. Ci sono stati i lupi, sono stati estinti e sono tornati. C’è stato l’orso, ritorna il cervo. Faine e altri predatori di animali da cortile corrono furtivi, soprattutto di notte. Il tasso e il riccio sono spesso sul sentiero. Il cinghiale è ormai presente ovunque. Difficile non vederne le tracce. I camosci si muovono in branco, in quota, i caprioli escono la sera dal bosco, d’estate, per brucare erbe tenere.

Nel passato questo mondo vedeva una forte presenza umana e una competizione importante con gli animali: ricerca di spazi e di alimento. Oggi c’è meno umanità e ci si dovrebbe accostare alla Natura con silenziosa attenzione. Anche vivendo o visitando gli abitati sul territorio. Pietra, tanto legno, quest’ultimo soprattutto in terra brigasca.

Il tempo si è fermato, fermiamolo anche per noi. La misteriosa alchimia tra Uomo e Natura va esplorata, qui.